LE MAFIE IN ITALIA

LE MAFIE IN ITALIA

Lo storico e politologo Nicola Tranfaglia, ha dato recentemente alle stampe per l’editrice Claudiana di Torino il saggio Le mafie in Italia. Classi dirigenti e lotta alla mafia nell’Italia unita (1861-2008) che ha come obiettivo quello di ricostruire i problemi e le vicende più significative che hanno caratterizzato la nascita e lo sviluppo del fenomeno mafioso, ma soprattutto la rilevanza e la sua persistente centralità nel nostro Paese, mantenendo nello stesso tempo una stretta connessione tra le storie della mafia e la storia dell’Italia postunitaria. Gli anni sessanta dell’Ottocento videro l’allora Destra storica impegnata su rilevanti problemi di organizzazione e costruzione dello Stato unitario, che ebbero dal punto di vista politico, la precedenza su tutti gli altri. Ma già in quel decennio nacquero le prime commissioni governative di inchiesta, che avrebbero portato nel 1877 al lavoro di Franchetti e di Sonnino. Entrambi colsero un aspetto centrale che purtroppo verrà volontariamente accantonato nei decenni successivi: l’elemento decisivo su cui si fondava la mafia era l’incapacità dello Stato di esercitare il monopolio della forza lasciando ai privati il potere di controllo di vasti settori della società.
Nel corso degli anni le future classi dirigenti votate al trasformismo non ebbero alcuna intenzione di organizzare una concreta lotta politica e culturale contro le associazioni mafiose, preferendo che si parlasse di semplice delinquenza individuale. Tuttavia voci isolate mettevano in evidenza la pericolosità del fenomeno: già alla fine dell’Ottocento il questore di Palermo scriveva una serie di rapporti al Ministero degli Interni sottolineando le tendenze fortemente organizzative della mafia. Sarebbe dovuto passare quasi un secolo prima che il paradigma ottocentesco dei mafiosi locali e isolati fosse sostituito da una concezione del fenomeno mafioso come verrà intesa dopo il 1982, cioè un’organizzazione criminale strutturata e unitaria denominata Cosa Nostra. Ci vollero le ampie rivelazioni di Buscetta e di altri pentiti, e nel 1990 la sentenza della Corte di Cassazione che confermò l’impianto del maxiprocesso istruito da Falcone condannando definitivamente i boss. Nel primo Novecento il lavoro più importante fu sicuramente quello del giurista siciliano Santi Romano nel quale si sosteneva la tesi della pluralità degli ordinamenti giuridici e si accennava alle “istituzioni dello Stato considerate illecite”. Oggi appare di particolare importanza perché rappresenta l’unica teorizzazione del tempo esplicita, sul piano giuridico istituzionale, di uno spazio politico, apertamente proclamato come ammissibile, soprattutto per le associazioni mafiose. E si tratta di una teorizzazione difficile da accettare ma che costituisce di fatto un punto di riferimento indispensabile per le forze politiche che non fanno della lotta alla mafia un obiettivo primario della loro azione di governo.
Nel periodo fascista, contrariamente a quanto la maggioranza della pubblicistica dell’epoca tendeva a rimarcare, non si può parlare di un’eclissi totale del fenomeno mafioso, pur coi meriti che vanno indubbiamente riconosciuti al prefetto Mori, noto come “il prefetto di ferro”, ma semmai di un duplice fenomeno: da un lato l’emigrazione di una parte ragguardevole della manovalanza mafiosa nei paesi europei e americani, dall’altro una dinamica che comparve per la prima volta e che è tuttora presente nelle principali organizzazioni criminali italiane, e cioè l’inabissamento in attesa di tempi migliori. Proprio questo rese possibile il ritorno, altrimenti inspiegabile, all’azione della mafia nel secondo dopoguerra. Un periodo complesso, tuttora oscuro e problematico da ricostruire, nel quale la fallimentare opera di epurazione dei fascisti nelle sfere della vita pubblica e amministrativa si intrecciò, al di là delle divisioni politiche pubbliche, con la contiguità emersa tra la classe dirigente e la mafia dopo lo sbarco anglo americano in Sicilia che si accompagnò alla mobilitazione, in appoggio alla coalizione nata col Partito cattolico, di fronti conservatori alimentati dai servizi segreti americani in chiave anticomunista, data la particolare posizione strategica dell’Italia. In anni così tumultuosi, la mafia riuscì bene a riprendersi il suo vecchio ruolo di forza garante dell’ordine costituito. La strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 e l’assassinio di Salvatore Giuliano assumono un forte significato simbolico nella storia repubblicana con cui la classe dirigente del nostro paese dovette fare in qualche modo i conti. Del banditismo, dei separatisti ci si poteva liberare a prezzi non troppo alti ma non così della mafia che dimostrò una grande dinamicità e riuscì a passare dalla società agraria a quella industriale, dalle lotte per la terra al traffico degli stupefacenti che avrebbero fatto diventare ricca Cosa nostra proiettandola in primo piano nel panorama internazionale delle organizzazioni criminali.
Negli anni Cinquanta e Sessanta l’ottica dei governi nei confronti della mafia rimase quella di circoscriverla a un fatto locale, che interessava prima i siciliani e poi gli italiani; in diverse interpellanze parlamentari Scelba si oppose nettamente alla richiesta di commissioni perché queste avrebbero potuto portare ad agitazioni contro le forze dello Stato. I mutamenti all’interno del gruppo dirigente democristiano avvenuti con l’ascesa di Moro videro un cambiamento di strategia rispetto alla chiusura totale che aveva caratterizzato il quindicennio precedente. Tuttavia è proprio negli anni Sessanta e Settanta che le associazioni mafiose compirono il salto decisivo penetrando nel mondo politico ed economico della Penisola, acquistando un ruolo centrale in quel complesso sistema di poteri leciti e illeciti che ha governato l’Italia e che in parte tuttora la influenza condizionandone la realtà quotidiana. Fu in questo periodo che, conseguentemente al boom economico, mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona riuscirono a mettere le mani su enormi quantità di denaro che stava piovendo nel Meridione sotto forma di appalti pubblici, con un’ulteriore accelerazione dopo il terremoto del 1980. Questo meccanismo fu espressione e conseguenza del più stretto rapporto con una parte delle classi dirigenti meridionali e nazionali che, di fronte al controllo del territorio raggiunto dalle organizzazioni criminali, individuarono in esse l’interlocutore idoneo a garantire loro un consenso stabile. Dall’altra parte le commissioni parlamentari di inchiesta che si succedettero in quei decenni apparivano dominate da un atteggiamento di eccessiva prudenza e pur proponendo pacchetti di misure dalle quali si evince una reale presa di coscienza del fenomeno mafioso, questi non vennero quasi mai attuati ciò spiega l’inadeguata azione di contrasto alla mafia dei governi degli anni Settanta e Ottanta. Non andava meglio a livello processuale, dove l’impunità dei mafiosi scaturiva da una inspiegabile abbondanza di assoluzioni per mancanza di prove.
Negli ultimi quarant’anni la storia repubblicana ha inoltre registrato la presenza di Cosa nostra e delle altre associazioni mafiose nel mondo finanziario, con ruoli politico-economici sempre crescenti. Tra i tanti episodi appare utile ricordarne tre fondamentali: lo scandalo Calvi-Banco Ambrosiano, quello Sindona e l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, tutti casi che mostrarono i legami tra gli ambienti finanziari e quelli politici. La crudeltà dei fatti, con gli omicidi politico-mafiosi di Pier Santi Mattarella, Cesare Terranova, Giovanni La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa avrebbe dimostrato come la mafia aveva esteso i propri rapporti con le altre associazioni criminali rinsaldando la propria presenza nel mondo politico. Una commissione parlamentare costituiva una presenza scomoda, e sarebbe perciò dovuto passare un altro decennio prima che venisse condotta una nuova inchiesta governativa. E fu un decennio pieno di sangue. La debolezza della politica e la sua crescente difficoltà di governare una società in rapido cambiamento, fu alla base della crescita del fenomeno mafioso. Negli anni Ottanta, approfittando di una congiuntura economica favorevole, i governi piuttosto che su una modernizzazione politica ma soprattutto civile, puntarono su una finanziarizzazione rapida che accelerò l’illegalità e la corruzione ad ogni livello. In una realtà dove i principali partiti si erano trasformati in centrali di potere istituzionale ma soprattutto clientelare, andando in direzione contraria al funzionamento di uno Stato di diritto quale è quello disegnato dalla Costituzione repubblicana, mancò ancora una volta una chiara strategia di lotta alla criminalità organizzata: l’unico vero avamposto fu costituito dall’iniziativa e dall’indimenticabile sacrificio di poliziotti e magistrati autori di indagini e istruttorie che, per i metodi innovativi e le intuizioni nate da una grande conoscenza del fenomeno, preparò in maniera straordinaria la grande impresa del maxiprocesso seguito da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e molti altri che andarono a comporre il pool palermitano. La conclusione del maxiprocesso appare come la scelta di una parte della classe politica, che la coabitazione tra mafia e politica era finita almeno con le forme e le modalità del quarantennio precedente, e le stragi del 1992-93 significano a loro volta che la mafia, presa ripetutamente a schiaffi da straordinari uomini dello Stato, non aveva intenzione di accettare le nuove condizioni imposte, e i corleonesi decisero di colpire i protagonisti della più forte repressione giudiziaria degli ultimi venti anni, uomini di legge il cui operato viene ancora studiato nelle scuole di polizia e nelle università di tutto il mondo per l’impianto innovativo e l’efficacia della loro incessante azione giudiziaria. Nel biennio successivo, a fronte di grandi cambiamenti a livello internazionale quali la fine della Guerra fredda e il conseguente smantellamento dei due blocchi, nel nostro Paese si verificò un brusco calo della tensione successivo alla stagione delle stragi. Da una parte la magistratura non seppe legare con la società civile, dall’altra, come la definì il procuratore Caselli, una diffusa sensazione di come troppa legalità in Italia “fa venire l’orticaria”. In generale tranne alcune eccezioni, sembra che le classi dirigenti italiane abbiano cessato di porre la lotta alla mafia al centro della loro agenda di governo. Tutto questo, nonostante le commissioni e le inchieste degli ultimi anni abbiano frequentemente dimostrato come mafia, camorra e ‘ndrangheta, ripiegando su una strategia carsica di opportunismo senza atti clamorosi e di lavoro oscuro nel sottobosco della politica e degli affari, continuino a esercitare la propria azione parassitaria che genera profitti miliardari.
Perciò un volume come quello esaminato, che evidenzia come la mafia abbia coabitato con ben tre diverse forme di governo che si sono succedute negli ultimi centocinquanta anni di storia del nostro Paese, trova il suo senso al fine di indurre una seria riflessione civile nei confronti della lotta alla criminalità organizzata. Una lotta che andando ben oltre il momento repressivo, come più volte sottolineato da Falcone, Borsellino e in tempi recenti dal procuratore Gratteri, debba in primo luogo essere un movimento morale e culturale che, partendo dalle scuole, si indirizzi alle giovani generazioni per renderle consapevoli, attraverso l’educazione e lo studio, della propria forza, delle pagine scritte dai grandi uomini di questo Paese, del potere di scegliere sempre da quale parte stare, della necessità di difendere i principi di libertà, di democrazia e di legalità sanciti nella nostra Carta Costituzionale.

Alessio Pizziconi